Cosa aspettarsi da un viaggio in Ungheria
È passato un anno esatto ma le esperienze devono avere il tempo di fermentare nell’anima per raggiungere la gradazione giusta e fare “pop” quando le stappi.
Voglio raccontarvi un viaggio di 40 giorni attraverso ogni persona incontrata, con l’Ungheria a farci da sfondo.
Attori: Brì e i grugniti di Pass
Comparse: auto che sfrecciano sulla Nitra – Nove Zamky
Si apre il sipario.
Arrivare da clandestini
“Cazzo, ma non si ferma nessuno! slovacchi di m***a!!! Sono tre ore che aspettiamo!”
Questa la situazione la mattina della partenza da Nitra. Il nostro cartello urla un “KM” – Komarno, città di confine tra Slovacchia e Ungheria – perché ci hanno detto che “Budapest” era meglio non scriverlo: non scorre simpatia tra le due rive del Danubio.
Quando finalmente vedo una macchina targata “KM”, per la disperazione mi metto in ginocchio con le mani congiunte e tiro fuori gli occhi imploranti del gatto di Shrek.
In questo stesso istante, arriva una Suzuki, anch’essa targata “KM”. Mi viene in mente la teoria di John Nash di scegliere una donna sola e che non sia la più gnocca. Concentro tutta l’energia della giornata su una, quella prima macchina. E Braño non può ignorare questa forza che si abbatte su di lui e si ferma.
Così, attraversiamo il confine ungherese, sospeso a metà di un ponte sul Danubio, il Grande Danubio Blu.
Dopo un’ora, Braño ci lascia a una stazione di benzina poco prima dell’autostrada.
Qui le nostre 7 lingue in 2 non servono più a nulla.
“Com’è che si dice ‘grazie’?”
“Nsch…”
“No, iniziava con la S”
“Allora Schn”
“Chsnm, si dice Chsnm”.
Ci dà un passaggio uno che parla solo ungherese. Mi addormento finché, a un certo punto, inchioda. Sull’autostrada. Cioè, proprio nel mezzo della corsia. Ci fa segno di scendere perché Budapest è a sinistra e lui deve continuare a destra. Le macchine sfrecciano a 120 km/h a un metro da me.
La polizia è ferma sull’altra corsia e a noi non resta che attraversare e camminare clandestinamente per ore nascondendoci in mezzo agli alberi secchi che costeggiano l’autostrada.
Si trova sempre qualcosa che ci manca
Budapest mi fotte con la bellezza di questa notte che non è buia e mi fa innamorare.
Mentre rifletto sul fatto che senza malinconia non si è, non si sente e manca la consapevolezza, un barbone si avvicina e mi dice “I’m homeless” “Me too” rispondo, con genuina istintività. “Good luck”.
Budapest, con la cupola che sbuca sull’orizzonte piatto, come un delicato tocco d’artista che completa la silhouette. Budapest, città che scorre senza far rumore.
Leggenda narra che, quando i francesi sconfissero gli Ottomani – e il loro simbolo, la mezza luna – qualcuno disse “abbiamo mangiato i turchi”. E fu così che a un panettiere venne l’idea per la forma del croissant.
Per questa notte ho scelto Janko su Couchsurfing perché vive col suo compagno e io dagli etero ho già imparato a sufficienza.
Il compagno non è qui in questi giorni e così Janko ha la libertà di condividere con noi la sua visione della “coppia aperta”: “Quando stai bene con qualcuno, non cerchi altro. Ma questo non vuol dire che non trovi. Si trova sempre qualcosa che ci manca.”
Aggiungerei “sante parole” ma Pass mi anticipa guardandomi male. napoleonicamente male.
Tra langós e wrestling
Tibor, il nuovo couchsurfer di Zuglo, ci dà appuntamento al McDonald’s “per un pranzo veloce”. Iniziamo male.
E invece ci ritroviamo in giro per i corridoi di un mercato locale dove nessuno parla inglese e il sorriso delle donne ha qualche dente in meno. Ci porta a pranzare con il Langós, una specie di pasta fritta tonda, condita con crema, formaggio grattuggiato e – per gli impavidi – aglio.
Tibor ha le orecchie strane – “a cavolfiore” – perché era un combattente professionista di Wrestling. Mi fa vedere orgoglioso un sacco di video spiegandomi le varie prese e io, per mostrare riconoscente di aver capito, gli chiedo: “In Ungheria ce l’avete Tigerman?”
No.
Da qualche parte, sulle rive del Lago Balaton
Le barche a vela in lontananza, l’acqua che scivola sulla riva, il sole timido dei primi giorni di primavera e noi due stesi sul prato. I ragni iniziano a tessere ragnatele intorno a Pass che russa, un po’ come Gulliver e i Lillipuziani.
Oggi saremmo dovuti andare da Angelika di HelpX, ma all’ultimo momento ha rinviato a domani.
Mi sarebbe piaciuto tantissimo venire al Lago Balaton, a passare una giornata come questa, stesa al sole e con una distesa d’acqua che profuma di dolce ma sa di mare. Ma il Balaton non era riuscito a entrare nei piani.
Stamattina facevamo l’autostop quando Frank ci ha dato un passaggio per raggiungere il paese di Székesfehérvár e la nostra couchsurfer di salvataggio.
Guardacaso, andava proprio al Balaton e torna anche! Così, ci ha lasciato a goderci la natura del lago dall’unico punto dal quale non si vede l’orizzonte (Balatonakarattya), permettendoci l’illusione di essere di fronte al mare. Verrà a riprenderci nel pomeriggio per portarci da Ezster.
Avremmo potuto restare una notte in più a Budapest.
Ma le cose belle accadono quando trasformi un imprevisto in un’opportunità.
Happy Székesfehérvár
Ezster ci accoglie nella sua casa calda e rilassante con una Palinka 51% e pesce di lago fritto (e pieno di spine).
Passiamo con lei e la sua famiglia le ore più brevi ma intense di tutto il viaggio. Lei è cuoca e insegnante di cucina e cogliamo l’occasione per farci insegnare il goulash ungherese e lo strudel (che passiamo una giornata intera a preparare e 5 minuti a far sparire).
Per dormire ci è stata riservata la “naked room” del marito, nome che si porta dietro da un film in cui un padre nudo dà da mangiare ai pesci nella stanza che ha sempre sognato di avere per essere nudo. Oh, de sognibus non disputandum est.
Sono loro che hanno girato il video Happy – We are from Székesfehérvár, moda che impazzava durante questo periodo e ci sono dentro tutti: Ezster in cucina, marito alla batteria e figlio biondo in bicicletta.
E “happy” hanno reso anche noi.
Nelle grinfie della strega Angelika
Fa freddo. La tipa vive da sola in un paesino di 300 abitanti e invece che una farm è una casa. Fredda. E Pass cammina da una parte all’altra della stanza (6 m²) per riscaldarsi. Freddo, cazzo.
Lei si chiama Angelika e fa l’erborista. Dopo averci raccontato di un uomo sgozzato dalla mafia dietro casa sua, tira fuori un sorriso perfido: “e i prossimi sarete voi” [nota del regista: a questo punto l’attrice dovrebbe fare una risata malefica che fa raggelare il sangue]. La fa.
Devo fotografare gli oggetti che vende sua madre. Mi azzardo: “che tipo di oggetti fa tua madre?” “Ecco… vedrai”.
Con il freddo che fa, adottiamo il metodo delle piante: clorofilla di giorno, per emettere anidride carbonica di notte nelle vesti di bue e asinello. Pass vuole andare via. Dice che per punizione mi rinchiuderà in un hotel 5 stelle, un orribile Club Med dove non potrò fare altro che rilassarmi e partecipare ai balli di gruppo delle 18 e al cocktail delle 19. e, per finirmi, aggiunge “ALL INCLUSIVE”. Vile, tu uccidi una donna morta!
La mattina dopo ci incamminiamo per cercare l’aglio selvatico nel bosco a 6 km e la cosa fa molto Cappuccetto Rosso. c’è anche il lupo che ci aspetta a casa.
Ogni giorno lo passiamo nel bosco, dove ritroviamo gli stessi odori (era meglio se mi faceva raccogliere foglie di Nutella) e se chiudo gli occhi vedo aglio selvatico dappertutto. Presa da uno slancio popolare, intono “La Tabaccara“, immaginandomi a lavorare nei campi 100 anni fa.
Tornando, ci fermiamo lungo la strada per raccogliere i denti di leone. Tutti, tranne quelli che crescono davanti al manicomio (ce lo siamo scelto bene il posto), perché chi è dentro possa avere una vista che gli ricordi ancora che il mondo è meraviglioso.
Il giorno dopo andiamo in un paese a 10 km a mettere i volantini nelle cassette delle lettere. Mi avvicino alla prima casa e, come per ogni postino che si rispetti, il cane inizia ad abbaiare. Il passaparola funziona alla grande e in 10 secondi tutti i cani della via abbaiano impazziti allarmando i padroni: “Sai cosa mi piace di questo lavoro? Che è discreto”.
Pianificazione della fuga
Tornati in paese, Rudy del bar ci offre da bere perché siamo stranieri mentre un tipo ubriaco ripete “Louvre, Paris St. Germain, Gina Lollobrigida, Gianni Morandi”.
È buffo che ogni persona che arriva dia la mano uno per volta a tutti quelli che sono già dentro.
Incontriamo Christian e Eva, che hanno lavorato a Marsiglia per qualche anno. Ci portano al ristorante e, visto che stanno per aprire una pizzeria (Pizza Firenze), gli regaliamo dei fogli con su scritta la preparazione di tante ricette.
Ascoltata la nostra storia (e situazione erboristica), decidono di darci un passaggio fino a Pécs, nostra prossima tappa. Pécs, a 200 km da lì. Di sola andata per noi, più 200 km di ritorno per loro. e non di autostrada.
Ananas Hostel: imparare a costruire un ostello
Quello che tuttora mi è rimasto impresso di Ananas Hostel è l’utilizzo della cornetta del telefono al posto della maniglia della porta. Son cose che ti segnano.
L’ostello è gestito da Csaba e Marion, da pochi mesi genitori di Zelia. In Ungheria devi scegliere il nome dei figli da una lista ma, nonostante questo, non tutti si chiamano “Peter” come in Slovacchia.
In cambio di vitto e alloggio, stiamo costruendo altre stanze, perché i prossimi viaggiatori possano avere un posto caldo dove riposare la notte, fatto con l’amore di altri viaggiatori.
Dopo giorni duri passati tra calce e cemento, non ci sembra di lavorare: è un piacevole prendersi cura di un ambiente dove stiamo bene, che sentiamo anche un po’ nostro.
La mattina della partenza, Csaba ci fa trovare tutta la colazione pronta e io gli lascio un ananas fatto con giornali e colla, uguale al logo dell’ostello. E poi una riproduzione dell’ostello fatta con i Lego – incluso Csaba con i suoi capelli da San Francesco seduto al pc – per i quali io e lui andiamo matti.
Commosso, allarga le braccia per un grande abbraccio. è così magro che mi tocco i gomiti.
E qui salutiamo l’Ungheria, consapevoli che sono state le persone incontrate a rendere il nostro viaggio così straordinario, nel bene e… nel bene lo stesso.
Sono le persone che fanno i luoghi.
Sono le persone che ci cambiano.
Sono le persone quelle che cerchiamo.
E quelle per cui tornare.
L’Ungheria è stata una sorpresa.
Uno di quei posti che si insinuano umilmente nell’anima e poi non vanno più via.