1700 km dopo: tra le tette di Donna Slovacchia
1700 km di passaggi e incroci di vite dopo, il grande Far Est.
Non poi così lontano se contiamo i passi ma, varcato il confine austriaco, un ponte levatoio si schianta pesantemente al suolo.
Diradatasi la polvere, si scorge l’ingresso per un mondo nuovo ma con quell’aspetto un po’ stantio delle case anni ’50 – quelle con la carta da parati marrone a fiori – e l’odore un po’ stagionato di croste di formaggio appena grattugiato.
L’orizzonte è dominato da colori tristi che, a modo loro, riescono a emanare un timido calore.
Ai piedi degli alberi, un rosso ferroso copre di ruggine il verde vivo di una primavera in attesa del permesso di sbocciare.
Terra di rudi minatori e conquiste (altrui), sulle prime la Slovacchia resta schiva come i suoi abitanti.
Separata alla nascita dalla gemella Ceca, questa Repubblica inizia a muovere i suoi primi passi incerti, incredula davanti a un’inaspettata indipendenza negata per secoli che scopre un’identità appena nata ma già decisa a caratterizzarsi, in ritardo sui vicini di confine.
Così radicalmente latina nelle declinazioni della lingua ma talmente slava nello spirito che quando si alza il vento ti si gela il cuore.
Prostituta dall’animo duro che nel tempo si è concessa a slavi, austriaci e ungheresi, senza mai abbassare quello sguardo, fiero e impenetrabile. Giusto quello.
Unica strada tra il Danubio e i Carpazi, aperta al passaggio di eserciti in marcia per la grandezza del proprio popolo che tra le sue cosce si riposavano e ritrovavano le forze.
E io me li immagino lì, mentre si passano tra le dita i capelli biondi delle donne più belle d’Europa, con sulle labbra una sigaretta, parole d’amore senza promesse e illusioni di libertà.