Cervantes alla conquista di Marie-Galante, l’isola dei cento mulini
Caliamo l’ancora nella baia di St. Luis che è ormai notte e non si vedono altro che le luci del paesino di Marie-Galante.
Al mattino è la musica dei Caraibi che mi sveglia.
Scendo a terra e seguo le note che si srotolano sul pentagramma, ipnotizzata, sperando di trovare il pifferaio magico o il suonatore Jones alla fine, dove la musica inizia.
Invece ci trovo una Big Mama con un fazzoletto in testa e un vestito shocking (shock che mi ha fatto dimenticare il colore) a fiori, intenta ad apparecchiare una cinquantina di lunghi tavoli.
A giudicare dalle majorette che sculettano sulla via principale e la sfilza di cravatte e tailleur, sono sbarcata alla festa patronale.
Appoggiata al muretto, osservo questa donna che con lentezza esasperante sistema le posate, lasciando buchi qua e là, che rimpiazza successivamente sottraendo le posate ad altri tavoli. E lo stesso accade con i bicchieri, che migrano da una parte all’altra, chiaramente non sufficienti.
Il mio sottile spirito d’osservazione mi fa dedurre che si mangerà!
Così, il mio stomaco mi sposta in A5 – di fronte alla Biggest Mama – e si improvvisa ventriloquo: “Posso dare una mano?”.
Dal basso delle sue tette sconfinate, vedo che mi squadra. Da sopra le lenti il suo sguardo si sofferma prima sul mio ciuffo da Tintin. Poi alla cima che uso per tenere su i pantaloni. Infine, alle scarpe bucate.
Sorrido, fiera del mio urban style all’ultimo grido (nel senso che finché le scarpe non urlano non le cambio).
Sorride anche lei. E mi mostra cosa devo fare.
Divento piegatrice di tovaglioli da mettere nei bicchieri. Cerco di adattarmi al loro ritmo rallentando, rallentando, rallentando… Il mio cuore smette di battere ____________ e mi accorgo che sto camminando all’indietro. Rimetto subito la prima e riparto.
«Capita’, t’ho trovato il pranzo.»
«Brì, t’ho trovato la cena.»
Mi comincia a piacere lo spirito che anima Marie-Galante!
E così faccio il mio ingresso alla Baleine Rouge, il covo dei marinai e delle loro storie dimenticate.
Conosco Jackie, un ottantenne sveglio che ha fatto mille cose nella vita: dal fondare una squadra sportiva ad aprire un cabaret che tra i clienti annoverava Berlusconi (non so se si debba interpretare come di lusso o a luci rosse). Gli stanno scrivendo la biografia, ma non a Jackie perché non è il suo vero nome. Ma questo non tutti lo sanno, che “quella che noi chiamiamo rosa, anche chiamata con un’altra parola avrebbe lo stesso odore soave”.
Mi siede affianco e passiamo tutta la serata a chiacchierare. Di Cuba e delle cubane, dei viaggi di ogni giorno, delle persone incontrate e lasciate andare, di quelle rimaste.
Mi prende in simpatia e decide di prepararmi una banana flambée e di farmi assaggiare il suo rhum arrangé, un rhum fruttato così forte che se tossisco esce fuoco.
«Ti gusterebbe se te lo regalassi?» mi chiede in un perfetto toscano di Mentone, mentre mi porge il suo vocabolario italiano/francese. Finalmente potrò elevare la mia comunicazione dal livello gesti e grugniti a onomatopee (googla “mondegreen“).
E poi è arrivata la notte e abbiamo spinto il dinghy in acqua per tornare in barca.
La pioggia aveva appena lasciato la sabbia bagnata e un profumo di fresco iniziava a salire nell’aria.
Ed è successa una cosa straordinaria.
Sono arrivati a decine e decine, poi centinaia, a danzare intorno a noi illuminati solo dal riflesso delle stelle. E hanno colorato tutto, folli e bellissimi, in una danza frenetica e impazzita che si stringeva fino quasi a toccarci.
I pesci volanti.
Sfumature azzurre che brillavano sospese nell’aria lasciando scorrere il mare sotto di loro senza sfiorarlo, finché non ci si rituffavano dentro.
Che spettacolo, quel vortice di salti che, stringendoci in un abbraccio zampillante, ci ha accompagnato fino in barca.
Quei momenti che non puoi fotografare ma che si imprimono nell’anima.
Il giorno dopo mi incammino per 10 km al tepore di un tenue sole caraibico di 40° per andare a vedere la Gueule Grand Gouffre.
Il Gouffre è un buco. E come tutti i buchi è qualcosa che manca, qualcosa che non c’è.
E allora sono venuta a vedere niente.
Oppure i buchi sono fatti per essere riempiti. Magari di sensazioni, che “l’essenziale è invisibile agli occhi”.
Così decido di innamorarmene, perché l’amore rende ciechi e affina gli altri sensi.
Mi sono fermata. E mi sono seduta per terra, ad ascoltarmi. Non c’è fretta.
Gli scrittori giapponesi non mettono un finale nei loro libri. Loro osservano i dettagli, si mettono comodi nel paesaggio in cui sono. Non gliene frega niente di arrivare da qualche parte, da un’altra parte che non sia quella in cui sono.
Cosa che nella mia smania occidentale non era contemplata. Pensa quando ho saputo che avevano dato il Nobel a quella pizza di Murakami.
Allora mi siedo e mi prendo tutto il tempo dell’attesa, per diventare carta bianca da riempire con quello che vedrò a occhi chiusi.
Sancho, sarà per questo che io a Marie-Galante di mulini non ne ho trovati?