Buongiorno, Miss Sarajevo
La mia felpa odora di fumo di sigaretta. Anche i miei capelli, la sciarpa, la giacca. poi dal piano di sotto si aggiunge anche cipolla cucinata a colazione. E una spruzzata d’aglio, così non ti ammali, la nonna. E ogni sorta di odori che puoi lavare tanto non serve, ci sei dentro fino all’ultimo capello e loro sono dentro di te: signori passeggeri, benvenuti nei Balcani di Kusturica.
Sono a Sarajevo dopo un viaggio lungo 6 ore a bordo di uno shuttle, che da Belgrado mi ha portato qui insieme a Noè (gente che salva dai diluvi è sempre meglio avercela come amica). Siamo arrivate in Serbia già da 3 giorni ma questo viaggio per me doveva iniziare qui, a Sarajevo, e allora srotolerò il racconto così come si è arrotolato nell’anima della mia fantasia.
Tutto è iniziato leggendo “Venuto al mondo” della Mazzantini: la prima volta che sono stata a Sarajevo era tra quelle pagine. È stata anche la prima volta che ho visto la guerra ma io non ero tra quelli che uscivano di casa, correndo per non farsi sparare dagli sniper appostati sulle colline.
Io ero al caldo, dietro la finestra del “Doctor’s House hostel”, e da qui in cima si vede tutta Sarajevo. Ma aspetto sempre la notte per uscire sul balcone, quando quelle colline che hanno occhi e mirini spariscono nel buio e non posso vederle, così loro non possono vedere me.
Eppure di giorno, camminando per le strade del quartiere musulmano che en passant diventa quello ortodosso e poi quello ebraico, quelle colline sono così lontane, sembra assurdo che da lì qualcuno possa vedermi e spararmi un colpo in fronte.
Non lo so, è che a Belgrado la guerra te la mostrano, vedi gli edifici bombardati mentre qui tutto è ricostruito, non si vede che c’è stata la guerra.
No, a Sarajevo la guerra non si vede. Si sente, nonostante una nata al di qua dell’Adriatico non abbia idea di cosa sia. Ed è questo il suo incanto e non c’è altra spiegazione perché di Sarajevo non diresti che è triste, malinconica o fredda. È solo che è stata tradita dalle sue colline, tutto qui.
Ci devo andare.
Il tassista che troviamo toglie la luce con la scritta “taxi” e la nasconde nel cofano.
Ci porta su, dove c’è la pista di bob costruita in occasione delle Olimpiadi del 1984.
Mentre guida ci spiega che i bosniaci vengono spesso fin qui a passeggiare ma non lasciano mai la strada perché la foresta è ancora disseminata di mine.
La pista di bob è abbandonata e io e Noè ne percorriamo un tratto a piedi, guardando i tanti murales che la ricoprono.
Ma è tornando, quando il tassista si ferma e dice “questo è uno dei punti dove si appostavano gli sniper” che diventa difficile. Dopo le Olimpiadi l’avevo dimenticato. “Da qui si vede dentro le case, da qui uccidevano le persone”. Le persone, capito, non la gente. Una a una le sceglievano, non tutte insieme.
E io adesso sono qui, su una di queste colline che circondano Sarajevo lasciandola senza via di fuga. Sono dietro al mirino con il dito sul grilletto e non ce la faccio: chiudo gli occhi e scelgo il mio posto e con esso il mio destino: io sto tra quelli giù.
E quelli giù sono tra le rose di Sarajevo: le granate.
E due ragazze ti dicono che devono correre, ADESSO, perché forse riescono ad attraversare la strada mentre il cecchino sta mangiando. O forse no. E te lo dicono sbellicandosi di quelle risate imbarazzate da teenager, mentre tu le fissi incredula e con faccia ebete e te la fai addosso pensando che il prossimo a cadere a terra senza un lamento e con parole troppo gelate per sciogliersi al sole POTRESTI-ESSERE-TU.
Ma miss Sarajevo ti dice che loro sono così, hanno questo humor nero e questa guerra li fa ridere. Meglio così, aggiunge.
Il punto è che tu non sei nata nei Balcani e non puoi capire. “Assurdo” è l’aggettivo col quale descriveresti tutto da quando sei arrivata. Ti sembra assurdo che uno mentre muore rida. Ti sembra assurdo che a Belgrado, cioè in Serbia, cioè da dove vengono i cecchini appostati sulle colline ci sia un locale che si chiami “Sniper”. Eppure questa cosa sembra non notarla nessuno. E allora corri, Forrest, che forse il tuo cecchino sta fumando la sua sigaretta dopo pasto. O forse no. MMMUAAAHHHH!!!
Emir ha 22 anni, è di quelli nati negli anni della guerra, sotto i sibili delle granate. Ci tiene a raccontarmi com’è morto ognuno dei suoi nonni. La storia migliore è quella del nonno che ha messo un disco nel grammofono, si è steso sul letto, ha poggiato la testa sul cuscino ed è morto. Aveva 30 anni. “Che cosa ascoltava?” Gli chiedo, come se una canzone potesse esserne la causa. Mentre mi pento per la domanda stupida, Emir risponde: “Non so, ma era qualcosa in tedesco”.
Il tedesco, la quarta Maledizione Senza Perdono.
Il nostro tempo in questo surreale universo parallelo sta per scadere e riprendiamo lo shuttle.
Quello che qui chiamano shuttle non è altro che… un’auto normale. Quella che ci aspetta da 30 minuti e che non avevamo considerato per via delle sembianze monovolumiche, ha dentro due inglesi, uno dei quali in coma etilico da due giorni che vegeterà per tutto il viaggio.
Io mi siedo davanti per intrattenere le relazioni in inglese visto che Noè ordina un litro e mezzo di vino quando ne vorrebbe mezzo e una pizza intera quando ne vorrebbe una fetta.
Ma il nostro autista (soprannominato “Kusturica”) non spik inglish.
Kusturica ha il riscaldamento impostato su 28° e la scorta di Kinder Cereali per affrontare il freddo slavo è irreparabilmente sciolta. Io e Noè raggiungiamo lo stesso stadio pochi minuti dopo.
Kusturica guida con la mano sinistra sul volante, gli occhi fissi sui 28° e con l’altra mano che tiene il telefono. Ci mettiamo 7 ore invece di 5 e rischiamo diversi incidenti a cui seguono varie e colorite bestemmie. Alla benzina ci aspetta un tipo col quale scambiamo la macchina e penso che non risultiamo da nessuna parte e che potremmo sparire nel nulla dei Balcani e nessuno ci troverà mai. O forse sì… a pezzettini! AHAHAHAH (visto che ho capito come funziona il mood?!?).
Ma la cosa più divertente è stata sicuramente addormentarsi e svegliarsi di soprassalto ogni 20 minuti per le sue urla al telefono. Probabilmente stava solo dicendo alla fidanzata con molta tenerezza che la amava. Ma a noi che non sappiamo tradurre la delicatezza serba sembrava stesse per spaccare il volante a pugni!
Ci aspetta un viaggio lungo tra le montagne della Ex Jugoslavia e ci abbandoniamo tutti tra le braccia di Morfeo.
Mi sveglio all’atterraggio a Vienna e Noemi non c’è. Guardo il libro della Mazzantini sulle ginocchia e capisco di aver sognato tutto. Per forza, la realtà non può essere tanto ASSURDA.
Eppure ho addosso ancora l’odore di fumo di sigaretta.